Vuoto di senso
- cosessenziale
- 23 nov 2020
- Tempo di lettura: 7 min

VLADIMIR: Che facciamo adesso?
ESTRAGON: Aspettiamo.
- Sí, ma mentre aspettiamo.
- E se ci impiccassimo?
- Sarebbe un modo per farselo venir duro.
- Viene duro?
- Con tutto quel che segue. E dove cade crescono delle mandragole. E per questo che gridano quando le strappano. Non lo sapevi?
- Impicchiamoci subito.
- A un ramo? (si avvicinano all'albero e lo guardano). Io non mi fiderei.
- Si può sempre provare.
- E prova.
- Dopo di te
[...]
ESTRAGON: Non posso più andare avanti così.
VLADIMIR: Sono cose che si dicono.
- Se provassimo a lasciarci? Forse le cose andrebbero meglio.
- C'impiccheremo domani. (Pausa). A meno che Godot non venga.
- E se viene?
- Saremo salvati
Samuel Beckett, Aspettando Godot
È una settimana che provo a scrivere qualcosa di sensato rispetto ai sentimenti che sto provando: cerco di rendermi conclusiva, produttiva o di dare un risvolto di utilità a quello che provo, eppure mi ritrovo - perdonate il francesismo - col sedere per terra ogni volta.
L'energia, che mi aveva permesso di partire alla carica incontro alle cose che avevo da fare, cocktail letale e rinfuso di studio, lezioni, nipoti, articoli, etc. - ho anche provato a uscire a correre, ma se avete letto il mio ultimo pezzo indovinerete già com'è finita -, si è esaurita lasciandomi incredibilmente spossata e triste.
In aggiunta a questo colpo di scena che non mi aspettavo sarebbe mai giunto, infatti era uno dei momenti in cui si crede di aver trovato il segreto della vita, di potersela finalmente cavare da soli e che il resto del mondo sia indietro perché non ha capito nulla - vi prego ditemi che non capita solo a me, mi sentirei una sporca narcisista -, un amico mi ha mandato una mail dove mi raccontava come viveva la sua quarantena e da lì è nato un dialogo, che ha creato un effetto farfalla, che tuttora sta travolgendo gli eventi della mia vita, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria.
Il fattore scatenante è stata una domanda di senso che è stata riscoperta - perché penso sia insita in ogni uomo, ma sepolta quotidianamente, con maestria, da strati di cemento - dalla conclusione della mail del mio amico che è riassumibile così: nonostante la fatica che tutti siamo chiamati a vivere, dobbiamo impegnarci a uscirne e non farci abbattere, sovrastare dagli eventi.
La domanda mi è balzata in mente - ci tengo a precisarlo perché se no sembro più pazza del dovuto a farmi domande senza una ragione, posto che di pazzi si possa parlare - per l'enorme contrasto che emergeva nella mail tra la lotta che il mio amico effettuava quotidianamente per affrontare la giornata in maniera quantomeno dignitosa e la necessità di qualcosa di più di una mera sopravvivenza, un'esortazione che sorprendentemente si presenta, un fulmen in clausola.
Quindi mi sono chiesta "perché?"
Perché il mio amico e tutti noi - o almeno spero - ci diciamo che dobbiamo farcela? Perché dovrebbe valere la pena vivere e non limitarsi al minimo sindacale?
Nel momento in cui mi sono posta la domanda era ancora facile. Non avevo ancora urgenza di risposta: quello che studio mi piace, mi interessa. Ma è un po' come quando da piccola andavo in vacanza senza i miei genitori: fino a che mi trovavo bene non sentivo la loro mancanza; quando le cose iniziavano ad andare male, mi chiedevo come avessi potuto sopravvivere senza di loro. Stessa cosa: quando studiare ha iniziato a pesarmi di più, la mia domanda ha iniziato a farsi stringente.
Perché, perché, perché?
A rispondermi non basta un mero obiettivo: non voglio che a determinare la mia vita sia un voto di laurea più o meno alto. Cerco uno scopo con la S maiuscola. Estragon e Vladimir sono l'esasperazione di quello che voglio dire e per ciò lo esemplificano bene: non c'è nulla da fare... riempiamoci la vita di cose da fare mentre aspettiamo il nostro "Godot" un avvenimento stravolgente - che non avverrà - e iniziamo a progettare di impiccarci. L'unica cosa che ci tiene in stato pseudo-vegetativo è una speranza che sta sfumando lentamente davanti ai nostri occhi.
Lo scopo dei protagonisti dell'opera è vedere Godot (gioco di parole con la parola God, dio), che tutte le sere manda un messaggero per far sapere ai due, che "non è riuscito a venire, verrà domani", disilludendo ogni giorno di più i protagonisti, i quali diventano sempre meno umani, sempre più animali.
Questo perché lo scopo della loro vita è prettamente passivo: qualcuno deve arrivare, qualcosa deve succedere. Attribuiscono ad altri, o ad altro, il senso della loro vita.
Rischiamo questo anche noi, ogni volta che ci diciamo cose come "quando finirà il covid sarò migliore... farò queste cose...", "andrà tutto bene", "ce la faremo".
Una mia amica l'altro giorno mi ha fatto riflettere in merito a quest'ultima frase: cosa vuol dire "farcela"? Alla fine a meno che non si muoia, tutti ne usciremo. Ma basta la sopravvivenza per dire che "ce l'abbiamo fatta"?
Secondo la mia amica - e condivido pienamente - farcela, alla fine, non è riconducibile a questo, sarebbe una svalutazione dell'uomo in quanto tale. Farcela vuol dire riuscire a trovare il modo di vivere il Senso anche in questa situazione. Non lasciarci travolgere dall'onda di eventi.
Questa situazione mi ricorda la versione esasperata dei buoni propositi di gennaio, che puntualmente nessuno rispetta. Come può il nostro modo di vivere cambiare con l'arrivo di un mese nuovo, di un anno, di una condizione...? Abbiamo una vita intera e facciamo dipendere il modo in cui la vivremo da circostanze pressoché ininfluenti.
Il nostro Godot è la fine del lockdown. Siamo fermi ad attendere... e se non arrivasse? "Ci impiccheremo domani"? Se arriva saremo salvi?
Parafrasando un commento di Sara - wow questo pezzo è pieno di contributi senza che gli interessati lo sappiano - "morto un Godot se ne farebbe un altro". Il lockdown è un alibi. Qualcosa che ci giustifica ad essere meno sul pezzo, a vivere meno pienamente. A me per prima.
Quante volte capita di dirsi "è una situazione difficile, non è sbagliato lasciarmi andare" declinato in più forme, in più situazioni, ma la sostanza resta uguale. Questa settimana non facevo altro che ripetermelo.
Ma davvero non ci possiamo lasciar andare.
Nel momento in cui il covid sarà "sconfitto", se così si può definire, ci sarà sicuramente qualcos'altro, forse più personale - questa occasione è interessante da analizzare perché è un evento che tocca tutti... quando mai capita di riscoprirsi tutti fratelli della stessa "disgrazia"? - però ci sarà sempre qualcosa che si aspetterà che finisca, qualcosa che si crede darà il senso alla nostra vita.
La mia ricerca è diventata urgente per questa ragione. Nel momento in cui io avessi avuto chiaro in mente quale fosse questo Senso di vivere, nulla nella mia vita sarebbe stato più cedibile al caso. Tutto sarebbe stato teso a questa cosa, in qualsiasi situazione. Perché, altrimenti, la vita è bella e va bene fino a che c'è il periodo buono, ma quando la situazione diventa più complicata ci si lascia andare, si maledice tutto e ci si cala in un circolo vizioso senza fine.
Ho iniziato a interrogare i miei amici, assetata come non mai, per capire quale fosse questo senso. Perché la vita vale la pena di essere vissuta e non lasciata trascorrere?
Le risposte sono state molteplici e non sto a riportarle tutte in questa sede.
Per alcuni il senso sta nelle cose belle e questa tesi l'ho adottata, in parte, diciamo, fino a martedì.
Quando mi sono resa conto, martedì appunto - ci tengo particolarmente a specificare i giorni perché così capite quanto fosse titanica la pretesa di trovare il senso della vita - che il bello non bastava ho provato a ricercare il senso in altro, ma ogni cosa mi sembrava limitante, o comunque, evanescente.
Alla fine ho deciso di attribuire il senso proprio a questa domanda.
Ho la certezza che valga la pena vivere e voglio devolvere la mia vita a capire il perché. Perché il mio cuore brucia di voglia di vivere? Perché desidera di più oltre alla sussistenza di base, oltre alla sopravvivenza, oltre al piacere fine a se stesso? Perché questo desiderio non è una fregatura?
Se guardo indietro a tutto quello che ho vissuto, non sono mai rimasta delusa, anche se adesso ho solo 19 anni - in realtà sono 19 tra un mese, quindi ricordatevi di farmi gli auguri o mi offendo - e magari non sarà così quando sarò più grande.
Da questo è scaturita un'altra paura che è riassumibile con una citazione da Test d'ingresso di medicina dei Pinguini tattici nucleari:
"E alla fine dei giorni pensare da ipocriti
Che tutto sommato si è avuta una bella vita".
In sostanza, ho paura di farmi fregare da questa certezza e che alla fine guarderò indietro pensando di essere stata felice, quando, in realtà, mi sto mentendo.
L'unico antidoto che ho trovato a questa cosa è cercare di fare le cose con amore, come dicevo settimana scorsa - aiuto, quanto mi ripeto, scusatemi - non relegandomi alla prestazione, ma dedicandomi alla ricerca del bello nelle cose che sto facendo.
Non devo perdermi nulla - anche se spesso c'è la tentazione - perché da qualunque dettaglio potrebbe sgusciare fuori il senso o un suo piccolo segno.
Quindi a partire dalla mia domanda iniziale, la mia sfida della settimana - e se funziona spero anche della vita - sarà provare a vivere così: cercando di fare tutto al meglio possibile, non per il risultato in sé - in barba alla Chiara con complessi di inferiorità di facio ergo sum, cambio rapidamente, eh? - ma solo per me, per capire dove sta il senso, perché ho questo desiderio enorme di vivere.
Vi aggiornerò sicuramente, sperando di trovare qualcosa e di imparare a fare fatica, la mia grande croce del periodo... ma di questo vi parlerò poi, se mi sopporterete ancora (la vedo dura in ogni caso).
Vi auguro buona settimana e aspetto veramente con ansia di ricevere risposte da voi, opinioni, proposte o semplicemente sapere come state! Mi fa sempre piacere, anche perché, come avete potuto vedere, l'informalità è la base del blog, che vive dei vostri contributi.
A presto!
Immagine: una scena di Aspettando Godot di Samuel Beckett.
Vi lascio anche un fun fact su di lui: era molto amico di James Joyce e andava spesso a casa sua per discutere con lui di letterature e cose da persone che ne sanno a pacchi. La figlia di Joyce, Lucia, era innamoratissima di Beckett ed era convinta che andasse lì per vederla. La dura realtà è che il nostro caro Samuel aveva occhi solo per la cultura.
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