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E ora andrà tutto bene?

Due anni fa esattamente, la nostra vita veniva sconvolta da un virus letale, che mi ha tolto i miei 18 anni, recludendomi in casa, impedendomi di vivere il mio ultimo anno di liceo, i cento giorni alla maturità e tutte le altre cose che i ragazzi alla mia età hanno il diritto di vivere.

Questo è stato tolto a me come è stato tolto a tutti i miei amici, tutte le persone a me vicine e a tutto il resto del mondo.


Subito, quando ci siamo ritrovati reclusi tra le quattro mura, stravolgendo la nostra quotidianità, per la prima di innumerevoli volte, sui balconi, fieramente, avevano cominciato a sventolare striscioni con arcobaleni, che tentavano di portare un messaggio di speranza, “Andrà tutto bene” dicevano. Tutto avveniva mentre il numero dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva cresceva inarrestabile. Nonostante non avessimo minimamente un'idea, né il controllo, di questo virus, siamo riusciti a proclamare a gran voce, con – quasi arrogante – speranza: “Andrà tutto bene”.


Passati questi due anni, che ci hanno sicuramente ridotti in ginocchio, eccoci di nuovo di fronte a una minaccia, ma questa volta siamo di fronte a un uomo, sicuramente - nella sua follia - più prevedibile di un virus, uno esattamente come tutti noi altri; ci troviamo di fronte a un soggetto mortale e dotato delle nostre stesse facoltà, ma, questa volta, nessuno ha avuto il coraggio di ripetere la stessa frase.

Non ci sono arcobaleni, non ci sono affermazioni, messaggi di speranza. Nessun “andrà tutto bene”. Ci sono invece preghiere, pianti disperati che stanno scongiurando la fine di un massacro assolutamente insensato.

Per la prima volta, dopo due anni di pandemia, proprio quando si intravedeva uno spiraglio di ripartenza vera, tutto crolla di nuovo.


Perché di fronte a un virus, un evento naturale che non possiamo controllare, riusciamo ad avere più speranza e "serenità" che di fronte a un uomo con nome, cognome, paure e una data di morte certa come tutti noi?


Perché questa volta non svolazzano arcobaleni e messaggi di speranza?


Pensavo di avere il diritto di godermi i miei diciotto anni in pace, di poter vedere il mio ragazzo e uscirci a cena senza dover aspettare mesi, prima che tutte le restrizioni me lo consentissero. Ero arrabbiata perché mi sentivo privata di qualcosa che mi era dovuto. Ora di anni ne ho venti e ho capito che non mi è dovuto proprio nulla.

Con il covid tutto mi stava venendo sottratto in maniera – a mio avviso – ingiusta. Né io, né nessun mio coetaneo, credo nessun umano, hanno mai pensato che la pandemia fosse giusta o giustificabile, tutti l’abbiamo avvertita come una violenta privazione di cose che ci erano dovute e ci siamo arrabbiati, tutti ci siamo arrabbiati, chi violentemente, chi nascondendolo. Ci siamo arrabbiati nonostante fosse in qualche modo la natura a toglierci delle cose, eravamo, per quanto impotenti, furiosi, ardenti, desiderosi di riprendere in mano la nostra vita.


E adesso, di fronte a un uomo che sta togliendo molti più diritti, molte più cose dovute – perché il covid non ha mai fatto crollare case o arruolato ventenni in guerra – la rabbia cede il posto alla rassegnazione, le proteste hanno un surreale tono di preghiera, non più di rivendicazione.


A cena con il mio ragazzo ieri, l’unica cosa che riuscivo a pensare era la fortuna che avevo nel poterlo guardare negli occhi e piangere sulla sua spalla proprio quando ne sentivo il bisogno. Ieri, mentre ero alla spasmodica ricerca di notizie, ne ho trovata una in particolare che mi ha destabilizzato: uno dei soldati russi catturati ieri ha un anno in meno di me. Probabilmente ha una ragazza anche lui; e lei ieri sera, a differenza mia, non poteva piangere sulla sua spalla e nemmeno sa se ritornerà. Le uniche notizie che avrà di lui arrivano da canali che in Russia probabilmente non sono nemmeno accessibili ora come ora.

Adesso io mi chiedo: dov’è tutta la rabbia?

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