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Istruzioni d(isill)uso


La settimana scorsa vi ho parlato come di ritorno dalle vacanze natalizie, i miei propositi per l'anno nuovo, se così li possiamo definire, convergessero unicamente nel desiderio di trarre il bello dalle cose che capitano, a prescindere dalla situazione. Questo ovviamente è un sunto concentratissimo, se non avete letto e vi volete male, cliccate qui.


La domanda che lecitamente permane, per me soprattutto, è proprio il come. Riesco a intuire quando vedo qualcosa di bello, ma poi mi perdo sulla strada e penso che sia stato un incontro tanto intenso quanto però evanescente, momentaneo. Ma c'è qualcosa in grado di afferrare la mia vita, prendermi con tutte le sue forze e tenermi così affascinata e tesa al bello sempre?


Questa settimana è stata la prima interamente in università, con tanto di lezioni in presenza, pause caffè con compagni di corso, chiaccherate, pranzi, tutto nei limiti delle restrizioni, per carità, ma respirare questa libertà, anche se con la mascherina e distanziati, mi fa sentire di nuovo viva come non mai. Mi rendo conto che è una cosa che prescinde dalla questione virus: non ho mai incontrato un posto così vivo, per quanto gli anni del liceo e la mia classe siano stati veramente stupendi e non potessi desiderare di meglio, ma, anzi, appunto per questo, mai mi sarei aspettata di poter trovare qualcosa di ancora più affascinante. Mi sono ritrovata in un luogo dove tutti sono spinti, e grazie a questa situaizione ancora di più, dal desiderio di vivere, di mettersi in gioco, di scoprire cosa c'è che per loro nelle pagine da studiare, tra le mura della biblioteca, nei chiostri e durante le lezioni.


La domanda che mi sono tenuta tutta la settimana è stata proprio questa: "Cosa c'è per me?". Sono riuscita a tornare a casa estremamente serena e soddisfatta da lunedì a venerdì, contenta di quello che mi era stato dato di vivere. Il confronto con una mia amica - interessante, fra l'altro, come i miei amici siano elementi basilari di ogni cosa che scrivo perché mi ricordano sempre qualcosa, ma vi giuro che non soffro di alzheimer - , che mi ha scritto dopo aver letto il pezzo della scorsa settimana, mi ha fatto notare che non avevo detto qual era il mio metodo.


Più che un metodo è una sorta di fedeltà. Non credo assolutamente di essere arrivata a una posizione per insegnare qualcosa, tanto che vedo ciò che scrivo più che altro come una sorta di promemoria per me, che poi muoio dalla voglia di condividere così da avere più spunti e possibilità di confronto. Il fatto è che il mio metodo per provare a vivere con questa letizia è incollarmi, letteralmente: vedo qualcosa di affascinante e mi ci attacco. È qualcosa che spazia in mille settori, possono essere amici, professori, libri, lezioni, serie tv, un bel paesaggio. Non so se vi capita di avere quel posto, quella persona o quella cosa da cui vorreste ritornare sempre.

Il mio obiettivo, a cui faticosamente provo ad avvicinarmi sfidandomi, è proprio questo: restare attaccata e fedele a quello che mi fa vedere cos'è bello, cos'è essenziale.


Così sembra semplice, quasi naturale, ma per me molte volte non lo è, anzi.

Esempio banale, ma abbastanza evidente e forte: l'altro giorno dopo una giornata fantastica, tornando a casa dall'università con le cuffie nelle orecchie, sento la tipa in treno di fianco a me che si lamenta perché da sabato la Lombardia sarà zona rossa. Ignoro la cosa quanto basta autoconvincendomi che abbia letto male quello che c'è scritto sul giornale piuttosto che guardare in faccia la realtà, solo perché lei e la sua pessima notizia non possono far sfumare il mio entusiasmo per la giornata. Quando poi ho deciso che il mondo reale era degno della mia attenzione ho proprio pensato "ok, questa è una presa per il culo. È tutto una presa per il culo. Appena ho la possibilità di gustarmi l'università ecco che riscattano le restrizioni". E io ci sono anche potuta andare, c'è chi non sa nemmeno dove sia a momenti per tutta questa situazione. Sono tra i più fortunati e comunque ho da lamentarmi.


Da qua scaturiscono due considerazioni:

  1. Non voglio che sfumi il mio entusiasmo e quindi ignoro la realtà. A cosa serve allora essere entusiasti? A cosa serve avere il desiderio di vivere se poi crolla a questa velocità? Un entusiasmo fine a se stesso - posto che non è definibile tale per questioni etimologiche: dal greco (ἐν e ϑεός vuol dire "dio dentro") - è inutile. Appunto perché ho un desiderio così forte e così grande questo dovrebbe farmi vedere la situazione in maniera radicalmente diversa.

  2. Appena le cose non vanno come voglio, appena mi tocca fare fatica, tutto diventa "una presa per il culo" e mollo tutto. Non voglio più parlare con gli amici, non voglio più studiare, non voglio più leggere, non voglio più cercare niente. Tutto deve essere brutto perché sono triste e non ci sono vie di scampo. Ma facendo così mi ripiego così tante volte su me stessa e sulla mia autocommiserazione che divento null'altro che una misera pallina di carta accartocciata. Non mi può salvare niente perché io ho deciso così e il mio entusiasmo, il mio dio dentro, non c'è più. Ho spento tutto.

Mi rendo conto che questa cosa mi metterà brutalmente in cattiva luce ai vostri occhi, dato che predico bene e razzolo malissimo, ma chi mi conosce di persona - quindi quasi tutti voi - tocca quotidianamente con mano questa mia incapacità di mantenermi salda nelle idee e nel perseguire obiettivi, quindi abbiate pietà di me.


Questa settimana più che mai, sperimentando tanta bellezza, tanto impeto, facendo così tanti incontri, lo stacco che si presentava tra la realtà universitaria e la minaccia della zona rossa era drammatico, vertiginoso.


Ma sono così incoerente: è razionalmente assurdo pensare che tutto quello che vivo in un luogo possa essere relegato al luogo stesso e non a me e a chi mi sta accanto. Le cose a cui mi attacco, che in questo momento sono l'università e gli amici, sono un laboratorio per la vita.


L'entusiasmo che mi prende nelle mie giornate universitarie non è altro che una spia, un modo per dirmi che è questa la strada giusta. E quando lo riconosco certamente mi attacco a quello, ma deve diventare parte di me.


È come quando leggi un libro bello: lo rileggi mille volte, ma se poi lo richiudi e l'unica cosa che ti rimane è la delusione del ritorno alla vita vera, allora davvero nella realtà fatutto schifo e quel libro è inutile, ti serve solo per scappare. Ma nel momento in cui prendi il libro e lo fai leggere ad altri, lì cambia tutto, perché quell'ottica, quel punto di vista, che il libro ti ha donato, rivoluziona tutta la tua vita e quella di chi ti sta intorno, è uno strumento. Non è una cosa fine a se stessa, ma diventa estremamente feconda, fruttifera.


A cosa mi serve l'università, a cosa mi servono gli amici, se non ad affrontare la vita - ma la vita vera - con uno sguardo diverso?


Ovviamente è una strada in salita, tortuosa, piena di massi e da fare a piedi nudi per me, perché, essendo abbastanza immatura, emotivamente parlando - e non solo -, mi lascio prendere da gioia e sconforto con la velocità con cui mangio le barrette al cioccolato.


Non so se mai lo imparerò nella vita o se morirò essendo ancora così, ma mi sono proprio accorta che il metodo giusto per me è questo: incollarmi a ciò che non solo è estremamente bello, ma mi fa vivere la vita bene, ciò che non che rimane una parentesi isolata e felice.


Aspetto vostre opinioni e racconti, muoio dalla voglia di sapere come state.

Spero che questa settimana -rossa, arancione o gialla che sia - possa rivelarsi un buon laboratorio per testare le mie considerazioni,

Un abbraccio, a presto!


 

Immagine: Matilde Mariani


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