Una, nessuna, centomila
- cosessenziale
- 4 feb 2021
- Tempo di lettura: 4 min

"La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi“.
Così Pirandello scrive a proposito della solitudine, nel primo libro del romanzo Uno, nessuno, centomila, dopo che la moglie di Vitangelo, il protagonista, gli ha fatto notare che il suo naso pende a destra.
In questi giorni soprattutto, l'ho sperimentata a lungo e a lungo mi ha fatto riflettere. Ironicamente, questa mattina, mentre leggevo il romanzo in treno, mi sono sentita chiamata in causa: Vitangelo anela alla solitudine per analizzarsi, conoscersi; io, d'altro canto, la evito come la peste, perché mi sembra sempre un di meno, un fatale destino da cui scampare.
Restando però - altresì ironicamente - sola con i miei pensieri, proprio oggi mi sono trovata a chiedermi come mai questa cosa mi indisponesse a tal punto da cercare di tappare tutti i "buchi" della mia giornata con presenza umana.
Intanto c'è da dire che, quando tratto gli altri in questo modo, mi ritrovo sempre infastidita da loro. Li cerco per non restare sola, ma d'altra parte sento il bisogno di avere un'intimità con me stessa, che, a quel punto, mi è preclusa per colpa mia.
Altra considerazione interessante in merito è che, mentre sono da sola, mi chiedo affannosamente cosa gli altri pensino di me e tramite le informazioni ricavate - al novanta per cento da mie mere supposizioni - designo un profilo sempre più aderente a me, formo un mio identikit.
Oggi mi sono chiesta, quasi per sbaglio: "E io che cosa penso io di me?"
Riflettendoci, io di me non penso nulla. O meglio, sto lentamente e semi-inconsciamente diventando un riflesso delle opinioni degli altri.
La mia visione, la mia considerazione di me stessa, è assolutamente deformata - nel bene e nel male - dagli occhi, che sono come specchi convessi, delle altre persone.
Questo penso spieghi abbastanza bene anche i miei passaggi da euforia ed alta autostima, alla più profonda tristezza, incurabile e disperata.
È un processo che ho chiaro in mente: sento un giudizio su di me e mi ci aggrappo, lo faccio mio, me lo stringo tra le mani come una cosa preziosissima e lo appiccico sulla mia persona. Questo avviene sia che si tratti di giudizi positivi che negativi.
Il negativo tendo ad amplificarlo oltre al normale e me ne rendo molto conto, al chè ogni critica diventa una voce opprimente che fa aprire uno squarcio, un buco nero nella mia testa e determina ogni mia azione.
D'altro canto, i giudizi positivi mi danno una sorta di "ora d'aria" dal carcere dell'ansia da prestazione che mi ingabbia sempre in ciò che faccio e non in ciò che sono.
Non so se vi sia mai capitato di sentirvi addosso il desiderio di vivere la vostra vita da proagonisti, la smania di afferrare con decisione e sicurezza ogni scelta.
Quel sentimento mi pervade ogni volta che mi riprendo da un "momento no", ma, appena sopraggiunge un giudizio negativo, seppure costruttivo, ritorno ad essere non più protagonista, ma personaggio marginale, secondario, della mia vita, lasciando scorrere sul mio corpo le parole e le opinioni che prima si stratificano su di me e, di conseguenza, si radicano.
Non so come riuscire a conciliare quello che gli altri dicono di Chiara Musci, quello che dico io e quello che sono effettivamente.
Non posso prescindere dal giudizio del resto del mondo, perché sarebbe alienante e inutile. Come faccio però a non crollare nel baratro dell'incertezza, a non smettere di credere che valgo nonostante ci sia qualcosa in me che è da migliorare?
In questa dialettica diabolica che non si risolve mai tra cosa dico io e cosa dicono gli altri, quello che spezza questo duello mortale è una terza cosa: quello che io sono veramente e chi lo aggancia, qualcosa che prende un punto vero di me. Quando qualcuno vede come io sono, che prescinde da tutti i miei e altrui giudizi, non mi frega più nulla di come appaio, perché io mi approprio della mia vita per davvero.
L'altro giorno ero abbastanza giù di morale, presa da uno di quei momenti di spirale discendente... quello che mi ha liberato da questo "carcere" è stato un messaggio di un mio amico che commentava una cosa bella che era successa: non era un giudizio su di me, nè un giudizio su quello che avevo fatto, ma era una semplice constatazione di ciò che era successo, senza bisogno di fare complimenti a caso o "critiche costruttive".
È davvero questo l'unico modo per cui vale la pena farsi guardare: una persona che se ne frega delle tue prestazioni, del tuo modo di essere e delle cose che fai, è grato perché tu sei tu. È stato incredibile come da un messaggio così semplice sia scaturita tanta libertà da farmi demolire la costruzione che avevo messo su e mi abbia fatto vivere la solitudine in un modo nuovo.
In questi giorni ho sentito dire: "Che bello è scoprire che una persona è diversa da come l'avevi in mente tu".
Io da grande incasellatrice quale sono devo ridurre tutti a un "tipo", metterli in una scatola in modo da poter prevedere eventuali comportamenti o mosse e non restare mai "sorpresa". E questo vale anche per me, ma dopo essere stata guardata così dal mio amico ho compreso appieno le parole.
Ho quindi concluso che forse, gli unici giudizi che devono importarci sono quelli non considerabili come tali: quelli che ci consentono di essere noi, che non determinano la nostra persona, ma che ci accompagnano a scoprire un pezzettino in più, senza stare a darci una risposta, perché poi chi veramente può avere la riposta? Chi ci può davvero conoscere se nemmeno noi siamo in grado?
Immagine: Pablo Picasso, Ritratto di Dora Maar seduta
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