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Puoi davvero essere soddisfatto di chi sei?

di Martino Saita



Nell’esatto istante in cui ho visto il titolo di uno degli ultimi articoli di Chiara, “Facio ergo sum (?) Cosa ci rende perfetti?”, mi sono subito curato di leggerlo approfonditamente in quanto i temi trattati stanno molto a cuore anche a me.


Ed ecco, dopo un paio di sere passate a provare di mettere su un discorso sensato, la mia versione dei fatti, i miei pensieri sulla ricerca della perfezione e sul legame tra quest’ultima e il rapporto con noi stessi. Per arricchire ancora di più il dialogo, ho anche un paio di spunti interessanti che giungono da un mio amico con il quale ho intrattenuto una discussione simile. So che è un articolo molto lungo e spero che non risulti eccessivamente pesante e noioso, ma le mie idee e i miei pensieri sono spesso strettamente connessi tra di loro da uno o due fili conduttori, tanto è vero che ho faticato a creare un discorso che si limitasse a solo due temi principali e che non divagasse troppo.


Che inizi lo sproloquio.


Prima di fare qualsiasi altro ragionamento c’è da chiedersi cosa rappresenta la perfezione per ognuno di noi. A differenza di concetti quali “giustizia” ed “essenziale” credo che si possa concordare facilmente (appieno o almeno in parte) con questa definizione: la persona perfetta nel nostro immaginario incarna noi stessi ma con molta più abilità nel fare ciò che siamo in grado di fare, capace di fare cose che non siamo in grado di fare e priva di tutto ciò che noi giudichiamo come difetti. Perché incarna proprio noi stessi? Perché è molto difficile immaginare un concetto astratto nella sua totalità, mentre è molto più facile partire da un

ente reale (noi stessi) modificandone successivamente le caratteristiche (tu sapresti dire oggettivamente come è fatto un naso perfetto? Io credo sia molto più facile immaginare il tuo naso, privarlo di ciò che non ti piace e poi aggiungere i particolari che secondo te possiederebbe un bel naso e infine immaginare che quel naso appartenesse a te. Il risultato costituirebbe il tuo ideale di naso perfetto).


Assumendo che questo concetto sia sensato, è immediato riconoscere che ognuno è tutt’altro che perfetto

poiché:

-esistono persone che sono più brave di te a fare quello che sai fare

-esistono persone che sanno fare cose che tu non sai fare

-esistono persone che non hanno alcuni difetti che tu hai


Questo ovviamente vale per qualsiasi persona.


Queste considerazioni nascono dal fatto che non siamo soli nel mondo, siamo inseriti in una società, abbiamo inevitabilmente contatti con altre persone e ci rendiamo conto che alcune sono simili a noi per certi aspetti ma non c’è nessuno identico a noi, pertanto (immaginando di stilare una classifica delle persone in base alla percentuale di perfezione, divisa per ogni abilità e pregio) è normale che ci sia qualcuno che ci surclassa in qualcosa e che ci sia qualcun altro che invece siamo noi a surclassare.


Sto forse dicendo che alla fine si tratta sempre di compromessi, che nessuno è perfetto e che possiamo rilassarci tutti perché alla fine dei conti è una battaglia che siamo tutti destinati a perdere? Sì e no, più no che sì.


Da un lato è vero che chi fosse in grado di accettare di essere imperfetto (raggiungendo una sorta di atarassia) potrebbe andare incontro a meno paranoie ed ansie, ma credo che ciò sia davvero inverosimile: sono sicuro che nel profondo ci sarà sempre il desiderio di salire di posizione nella classifica, di raggiungere il livello di chi ai nostri occhi appare migliore di noi, oppure per la semplice paura di essere ultimi, di essere una persona con poche doti da offrire in confronto alla media.


Questo desiderio di essere più di quello che siamo credo derivi dal semplice fatto che ogni volta che abbiamo commesso qualche errore a causa di una certa mancanza o ogni volta che notiamo qualche particolare di noi che preferiremmo non avere, viene naturale desiderare di cambiare quella cosa perché riconosciamo il peso di non essere come vorremmo; ed ecco che non appena vediamo qualcuno che possiede quella determinata dote che a noi manca, inizia il desiderio di essere quella persona almeno in parte, generando disprezzo per sé stessi e/o indivia, in forme più o meno lievi. Anche senza cattive intenzioni e anche se quella persona, magari, è un amico/a stretto/a, ma il solo fatto di riconoscere che lei ha qualcosa più di noi che giudichiamo un pregio, è immediato il desiderio di voler possedere quella qualità a nostra volta.


È normale desiderare un fisico migliore come quello di Tizio o di avere successo scolastico come Caio o di essere socialmente popolare come Sempronio, ma ci si può stressare anche per molte altre cose a prima vista irrilevanti. Per fare un esempio, poco prima che la Lombardia fosse proclamata zona rossa, un mio amico di nome Robert mi aveva raccontato di essersi preparato per la quarantena comprando alcuni libri da leggere (principalmente libri imprenditoriali, di storia politica americana e di letteratura inglese, sebbene lui stia studiando economia aziendale). Perché mai dovrei sentirmi inferiore se lui vuole leggere? Perché è stato più determinato di me nel voler crescere mentalmente: lui ha la volontà di impegnare parte del suo tempo in un’attività che richiede impegno ma che lo condurrà ad una crescita personale e so che anche prima del lockdown ha accumulato cultura su svariati argomenti grazie ai libri mentre io probabilmente stavo cazzeggiando o mi stavo lamentando per il troppo caldo in estate. Anche in questo istante Robert potrebbe star imparando cose nuove e diventare una persona migliore mentre io mi sono fatto fregare dalle biblioteche che hanno sospeso i prestiti a causa dell’emergenza sanitaria. Ciò mi fa davvero sentire come se tra me e lui ci fosse una tangibile differenza di qualità come persone e non è affatto piacevole. Eppure è un mio amico e non dovrei provare questa sorta di avversione nei suoi confronti, ma intendo far notare come, se stiamo attenti, ci sono davvero mille motivi per cui ci si potrebbe sentire persone peggiori in qualcosa rispetto a qualcun altro e auto-biasimarsi per questo.


A questo punto come dovrei comportarmi con Robert? Ci arrivo dopo.


In queste condizioni è difficile, se non impossibile sentirsi soddisfatti di se stessi. È come una perenne corsa, c’è chi parte avvantaggiato e chi si è dimenticato di allacciarsi le scarpe prima della partenza, ma costi quel che costi, non vuoi farti superare da nessuno, l’obiettivo è migliorarsi sempre di più nel tentativo di raggiungere la tanto agognata perfezione. Se invece sei tu a superare qualcun altro, è tutto grasso che cola. È facile tendere a confrontarsi con gli altri e a voler essere sempre più di quello che siamo, ma questa perenne guerra ci porta a dubitare di noi stessi perché il fatto di sapere di non essere il primo ti fa automaticamente sentire come se fossi l’ultimo, come se ovunque ti voltassi ci fosse qualcuno che vale più di te. Questa sensazione si aggrava specialmente per chi, come me, riconoscere di avere un carattere competitivo e una alta tendenza a non voler essere “quello che rimane indietro, quello che viene sorpassato”.


È così struggente sentirsi sempre messi alla prova tanto quanto sapere che per riuscire a coesistere con qualcuno è necessario che tu sia al pari di lui o perfino migliore di lui, altrimenti proveresti invidia nei suoi confronti e/o disprezzo per te stesso. Da un lato non riesci a rilassarti perché sai che se abbassi la guardia e non ti dai da fare per migliorare ci sarà qualcuno che nel tempo acquisirà più qualità di te, dall’altro ti senti in colpa perché sai che è ingiusto basare la propria soddisfazione e gratificazione nel vedere te stesso migliore di un altro, perché senti che solo se tu sei migliore di lui allora puoi coesistere con lui, altrimenti parte l’invidia. Pensateci seriamente: è davvero una bella sensazione quando ti accorgi di essere il più pompato tra i compagni di spogliatoio, vero? O quando sei tra amiche ad una festa a ballare e tutti guardano solo te con occhi sbalorditi, vero? Eppure in linea teorica dovreste essere tutti amici, dovreste supportarvi a vicenda (chiedo perdono per gli stereotipi, ma rendevano bene l’idea).


In queste condizioni, bloccati tra due fuochi, sembra difficile che si possa trovare la pace interiore e una sincera gratificazione che nasca da noi stessi, ed è per questo che purtroppo ritengo che quest’ultima non sia veramente raggiungibile: sai che la felicità dovrebbe nascere esclusivamente da te e che non dovrebbe dipendere da altri, ma sai che per dirti soddisfatto/a di te stesso/a hai bisogno di sentirti vincitore rispetto a qualcuno.


Difronte a ciò si può reagire in vari modi. Da un lato ci si potrebbe abbattere perché sapendo che la perfezione è irraggiungibile, significherebbe che a prescindere da tutti gli sforzi che fai per migliorarti non riuscirai mai a sentirti davvero soddisfatto/a; dall’altro ci si potrebbe impegnare in una perenne lotta contro sé stessi e contro chiunque dimostri capacità maggiori delle tue in qualsiasi ambito, dedicando ogni respiro al solo scopo di crescere e migliorarti più rapidamente degli altri. Ma reputo entrambe le scelte ugualmente sbagliate in quanto risulterebbero in un sentimento di repulsione e ostilità verso sé stessi e tutto ciò che ti circonda.


Questo dilemma in me si è fatto più invasivo e intenso nei periodi di lockdown, come quello che stiamo vivendo adesso, proprio perché essendo sempre rinchiusi all’interno delle mura domestiche ci si ritrova allo stesso tempo più chiusi nei propri pensieri, e quindi aumentano notevolmente le probabilità di ritrovarsi a chiederci quanto valiamo, cosa potremmo fare di buono, cosa stiamo sbagliando e cosa avremmo potuto evitare di sbagliare in passato.


La soluzione che ho trovato a marzo è stata quella di usare l’esame maturità come pretesto per avere sempre la testa sui libri, adottando un comportamento da studente stacanovista al fine di non lasciare più spazio per pensieri negativi e superare l’angoscia. E quando il cervello non ne poteva più, era ora di mettersi sotto con l’allenamento, almeno un’ora se non due al giorno. Per certi versi questo sistema ha funzionato in quanto non solo alla fine ho fatto un ottimo esame e sono finalmente riuscito a ottenere dei tricipiti definibili tali, ma sono riuscito effettivamente a mantenermi costantemente distratto da un paio di schiaffoni che il 2020 mi ha tirato a fine marzo, riuscendo a non pensare a quanto facesse davvero schifo quel periodo. Tuttavia posso garantire che non è un metodo affatto sostenibile sul lungo termine, sia per l’affaticamento psico-fisico generale che causa, sia perché a luglio mi sono davvero reso conto di quanto mi fosse pesato agire così macchinosamente per tre mesi, minimizzando i contatti umani a una videochiamata al weekend e nascondendomi dietro il pensiero “devo solo studiare e allenarmi, senza pause” per evitare la possibilità di ritrovarmi a pensare a qualcosa e a venir sovrastato da pensieri negativi.


Una soluzione alternativa è saltata fuori durante una mia discussione alle due di notte con Robert, l’amico di cui ho parlato prima. A differenza mia, lui sente meno la pressione del tempo e ha meno problemi ad accettare le proprie carenze, sebbene ne sia cosciente e pertanto anche lui cerca giorno per giorno di diventare una persona migliore. Secondo lui è inutile basare la valutazione di sé stessi sulle capacità degli altri perché partendo dal presupposto che non si può essere perfetti in tutto, allora ciò che importa è migliorare sé stessi solo in ciò in cui davvero ci interessa eccellere; occorre dunque distinguere ciò di cui

sentiamo davvero di avere bisogno e ciò che riconosciamo essere importante, ci cui però possiamo fare a meno. Chiunque venga a dirci che stiamo sbagliando, che dovremmo essere più quello e meno quell’altro, sbaglia perché non può sapere veramente quanto a te interessi qualcosa e quanto la ritieni importante.


Ricordate l’esempio dei libri che ho fatto prima? Secondo la sua prospettiva, io dovrei riconoscere che acculturarsi e coltivare il proprio pensiero critico è importante e che sicuramente conduce ad una crescita personale, ma se ciò che mi sta davvero a cuore è studiare per diventare un ingegnere con i controcazzi e allenarmi perché avere un fisico allenato mi fa stare bene, allora dovrei dare il meglio di me solo su questi due obiettivi primari e intraprendere altre attività solo se mi avanza tempo. È come se lui preferisse la

qualità alla quantità, in contrasto alla mia ossessione per la mia sete di quantità ottenuta nel minor tempo possibile. Secondo lui c’è tempo per diventare ciò che vuoi diventare, a patto che tu sia davvero disposto a lavorare per migliorarti e che ogni giorno ti dedichi a ciò a cui tieni. In sostanza, a fare la differenza sarebbe l’approccio che hai e la calma che riesci a concederti nel fare le cose.


Il problema è che sia che tu riesca ad accettare te stesso/a, sia che tu sia in grado di accettare un graduale miglioramento nel tempo o che tu cerchi di lavorare instancabilmente correndo contro il tempo, il solo fatto di dover adottare una strategia come queste implica che si è infelici nel profondo: una persona davvero in pace con sé stessa non si porrebbe nemmeno queste domande. Il tuo approccio verso la ricerca della perfezione, qualsiasi esso sia, non è altro che una semplice scelta per cercare di patire di meno l’insoddisfazione; ciò che tu credi sia giusto fare a riguardo è in realtà ciò che ti fa sentire meglio con te stesso/a per rimediare al problema alla radice. In altre parole sarai sempre in fuga dal sentimento di inadeguatezza, devi solo scegliere dietro a quale idea nasconderti.


Prima o poi capiterai sempre in una situazione che ti farà dubitare del tuo valore. È a causa di queste condizioni che non credo che si potrà mai essere completamente soddisfatti di sé stessi: anche se ignori tutto ciò che ti succede fuori, se scavi al tuo interno troverai sempre qualcosa che ti porterà a chiederti se sei davvero soddisfatto/a di chi sei.

 

FOTO DELLA COPERTINA: “Mano con Sfera Riflettente” di Maurits Cornelis Escher. È un’artista che mi è sempre piaciuto sin da quando ho visto la sua opera “Relatività” (quella con tutte le scale storte e sfasate sulle tre dimensioni, giusto per intenderci). Sulla superficie di un solido perfetto è riflesso un uomo, per natura imperfetto. L’artista sta guardando la sfera che ha appena costruito o sta in realtà guardando sé stesso? A voi sembra soddisfatto? Supponendo che sia soddisfatto, è soddisfatto della sfera o di cosa vede nel riflesso? Sarà stato soddisfatto dell’opera finale? Di cosa è più probabile che sia insoddisfatto?

Ok basta con i discorsi esistenziali, torno a studiare chimica è meglio.

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