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Cronache da Zona Rossa: due facce della stessa medaglia



La settimana scorsa è stata intensa e travagliata: è cominciata con un isolamento, si è risollevata con la condivisione di riflessioni ad amici e ha avuto un lieto fine, assolutamente inaspettato, grazie alle numerose risposte che hanno denotato una voglia di vivere, di affrontare la quarantena in maniera attiva.


Ed è paradossale se mi soffermo a pensare come tutto sia iniziato da una visione pessimistica e fortemente polemica – chi mi conosce sa che è un aspetto inscindibile dalla mia persona – nei confronti del torpore e della chiusura a cui ci ha portato il nuovo lockdown.

Al contrario, sabato avete letto – e se non l’avete fatto, ecco qui – le considerazioni che Sara ha steso in risposta alla mia denuncia.


Al di là della pacatezza dei modi e dell’ottimismo che le corrispondono - e che a dirla tutto le invidio da morire - non ho potuto fare a meno di essere affascinata da quello che aveva scritto, pur avvertendo un forte contrasto con le mie considerazioni stilate pochi giorni prima.


Appena dopo aver letto la risposta, mi sono confrontata con mia sorella e, insieme, siamo giunte alla conclusione che la questione Coronavirus abbia esasperato il conflitto interiore che ogni essere umano porta all’interno di sé sin dalla nascita: ci sono due atteggiamenti predominanti che si stanno calcificando nella persona. Sempre di più stanno diventando gli unici, tertium non datur, e questo avviene perché nel perdurare si consolidano. O c'è una staticità che si intensifica, un isolamento che diventa sempre più volontario e consensuale, o un'apertura nonostante gli impedimenti vari della situazione, dovuto a una fame di umanità che è insaziabile, l'uomo che si riconferma come tale. Oscillare tra i due è ancora possibile ma la scelta della squadra per cui si vuole giocare è imminente.


Si deve prendere una posizione, ora.


Da una parte c’è quindi chi si sta chiudendo agli altri e crea un muro attorno a sé, riducendo nettamente i rapporti umani, partendo dal presupposto che è possibile farcela da soli.

La mia denuncia era partita nei confronti di un atteggiamento, spesso fatto mio in primis: quando avevo la possibilità di andare in università a studiare spesso pensavo che forse stare a casa non sarebbe stato tanto male. Sapevo che avrei perso meno tempo negli spostamenti, non avrei dovuto svegliarmi presto, avrei potuto fare le cose con più calma. Quanto è facile sedersi sugli allori.

Trovarmi in quarantena mi ha svegliato: tutte le possibilità che avevo e alle quali c'era spesso la tentazione di rinunciare, mi sono state tolte nella maniera più rapida e sconvolgente possibile, da poter uscire di casa alla reclusione netta in camera.

Sara, d’altro canto, non è mai potuta andare in università e, da tale privazione, è nato il desiderio ancora più grande di mettersi in gioco, non perdersi nemmeno un'occasione di incontro e di lavoro (ma spero racconterà meglio lei prossimamente).


Il lockdown è sicuramente un momento difficile perché ci mette alla prova, ma rende ogni scelta più radicale e questa è sicuramente un'arma a doppio taglio.

Quando mi sveglio al mattino, il mio atteggiamento è fondamentale.

Andando al lavoro, in condizioni di normalità, una giornata può iniziare passivamente, ma non si può scampare al proprio dovere. L'emergenza sanitaria, al contrario, sta regalando alibi a tutti noi, che siamo immersi nella più grande libertà immaginabile - io da universitaria lo sono ancora più di chiunque altro - perché nessuno ci controlla e, anche se fosse possibile farlo, è tutto molto più blando rispetto alla norma.

Abbiamo molto più tempo per noi stessi e c'è il grande pericolo di credere che, come dicevo qualche giorno fa, "c'è tempo per smettere di perdere tempo".


Perdere tempo non significa semplicemente "non fare nulla". Una giornata può essere piena di cose, ma vissute in modo passivo. Una pioggia di nozioni appuntate in maniera automatica e rapida durante la spiegazione, oscillando tra i social e lo schermo della lezione in attesa di un momento di pausa - chi usufruisce della didattica a distanza capirà cosa intendo -, una matita che scorre annoiata sul foglio sperando di essere giunti alla fine del capitolo, per approdare poi alla rinnovata gioia del nuovo che, sebbene si sapesse già, si spegne immediatamente dopo aver notato che la mole di lavoro è uguale a prima e aver letto 20 pagine su 1400 non ha fatto assottigliare il libro.


In questa sede ci focalizziamo sull'essenziale e se l'essenziale non è presente nella nostra vita costantemente, allora stiamo semplicemente sopravvivendo e nulla ci differenzia da un animale a caccia di cibo. Ci deve essere del bello nella lezione che sto seguendo, ci deve essere nelle cinquanta pagine di diritto privato che devo fare per venerdì, ci deve essere mentre sto lavando i piatti la sera dopo cena, perché se no, in fin dei conti, ho solo perso tempo.


Sara ha ragione: non è la distanza che ci frega, non è la distanza che ci allontana dall'essenziale, perché la possibilità di vivere appieno ce l'abbiamo lo stesso, è solo più difficile vivere attivamente o semplicemente vivere. E soprattuto lo è ricordarsi di farlo.


Per me è incredibilmente facile scrollare il feed di Instagram con la colonna sonora della lezione, o spegnere il cervello mentre stanno spiegando, che tanto quando dovrò preparare l'esame avrò tutto scritto e "si vedrà lì cosa intendeva il professore".


Voglio imparare davvero a vivere quello che faccio, perché questa è la squadra per cui voglio giocare io.


Come si può vivere tutto attivamente? Cosa fa vivere voi attivamente?


 

Immagine: Matilde Mariani, Finestra.

"Palazzo Medici Riccardi a Firenze, è la finestra che apre sul giardino interno"

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